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Cos’è lo smart working? Una spiegazione semplice

Sul piano meramente operativo, più che un modello lo smart working ad oggi consiste nel “patto” tra azienda e dipendente che stabilisce lo svolgimento dell’attività lavorativa da casa sua o in uno o più altri luoghi diversi dalla sede dell’azienda (insomma, senza precisi vincoli in termini di orario o luogo di lavoro) e comunicando attraverso dispositivi telefonici e informatici.

Attenzione: lo smart working non può e non deve essere confuso con il termine co-working, ovvero gli spazi fisici di lavoro condiviso, né con il cosiddetto telelavoro.

Ma andiamo con ordine, partendo dalla fine. Quello che un po’ tutti stiamo facendo in questi ultimi mesi non è smart working, o meglio: non smart working propriamente detto. Chiamiamolo working from home (lavoro da casa) o meglio ancora remote working, ovvero da remoto, e che svolgiamo in via principale attraverso software e piattaforme digitali quali ad esempio GSuite di Google, Microsoft Teams, Zoom e Slack (regalando ogni giorno – è bene ricordarlo – milioni e milioni di nostri dati).

Lo smart working sta migliorando davvero le nostre vite?

Sicuramente ci sono molti vantaggi nel lavorare da remoto, ma diversi sono anche i contro che rendono questo tipo di prestazione lavorativa molto meno “smart” delle aspettative, poiché è innegabile che faciliti le nostre vite, ma non è assolutamente certo che le stia anche migliorando.
Uno dei paradossi dello smart working, ad esempio, è che per dimostrare che lavoriamo anche se stiamo a casa, ci stiamo auto-costringendo un po’ tutti (sì, anche i capi) a lavorare come dei forsennati, a mescolare gli affari con gli affetti, portandoci il lavoro dietro anche quando la sera andiamo a fare la spesa o portiamo a spasso il cane, se non addirittura la notte mentre tutti in casa dormono. Insomma, la linea di confine tra vita privata e vita lavorativa, tra stare online per lavorare e lavorare sempre quando siamo online (fenomeno che gli anglosassoni chiamano “always on”) si è assottigliata a tal punto da essere divenuta, di fatto, impercettibile.

In Italia lo chiamiamo lavoro agile

Cosa c’è di smart in tutto questo? Probabilmente ben poco, perché ci siamo ritrovati tutti immersi in una nuova “normalità” lavorativa della quale siamo sperimentatori prima che fruitori. Ma siccome le parole sono importanti, già nel 2016 il gruppo Incipit, un nucleo di linguisti collegato all’Accademia della Crusca impegnato nel suggerire equivalenti italiani delle parole straniere, in merito allo smart working aveva detto di ritenere “che l’italianolavoro agilesia un perfetto equivalente, con il vantaggio della maggiore trasparenza”.

Tant’è che di “lavoro agile” si parla anche in quello che fino a pochi giorni fa era di fatto l’unico riferimento normativo, la legge 22 maggio 2017 n. 81 recante “Misure per la tutela del lavoro autonomo non imprenditoriale e misure volte a favorire l’articolazione flessibile nei tempi e nei luoghi del lavoro subordinato”.
Ed anche il settore pubblico (uffici comunali, regionali, agenzie come Inps, Inail, ministeri, eccetera), vista l’emergenza sanitaria, ha dovuto trovare nuove forme per svolgere l’attività lavorativa non in presenza, inizialmente in forma semplificata e in deroga alla disciplina normativa. Tutto ciò sino alla data del 9 dicembre 2020, in cui il Ministro della Pubblica Amministrazione ha firmato un decreto con le prime linee guida ufficiali del Piano Organizzativo del Lavoro Agile (POLA): si tratta di un primo atto di indirizzo per tutte le amministrazioni statali.

I dati delle regioni

Considerato che in questi ultimi mesi siamo stati abituati a vedere l’Italia suddivisa in vari colori in virtù della scelta del Governo di far fede ad indicatori e indici di contagio regionali, abbiamo voluto visionare le percentuali su base regionale dei dipendenti pubblici in “smart working” durante la prima ondata di contagi. Ebbene, i dati indicano in Abruzzo (dove tutti sono in smart working), Lazio (96,6%), provincia autonoma di Trento (94,8%) e Toscana (94,4%) le zone con più lavoratori agili. Le percentuali più basse si registrano invece in Basilicata (48,9%), poco più della metà complessiva nel Veneto (51,9%), Friuli Venezia Giulia (55,7%) e Sicilia (60%). In Lombardia, la regione italiana più colpita dal Covid, la quota di lavoratori pubblici in smart working si attesta all’88,7%.

Il “papà” dello smart working

Jack Nilles, il fisico ritenuto inventore del cosiddetto "telelavoro"
Jack Nilles, il fisico statunitense è stato il primo a teorizzare il concetto di “telelavoro”

Le radici dello smart working affondano nel cosiddetto telelavoro, quando nei primi anni ‘70, attraverso la rete telefonica, la tecnologia iniziava a collegare gli uffici periferici delle grandi aziende a quelli centrali. Tutto ciò si traduceva per le aziende in una riduzione considerevole dei costi, poiché i dipendenti in telelavoro non hanno bisogno di una scrivania o un ufficio, e quindi non ci sarà necessità di affittare spazi, risparmiando anche i costi di illuminazione, climatizzazione, eccetera. Ed anche questo fu un fattore determinante, perché anche se non era ancora nata probabilmente neanche la mamma di Greta Thunberg, in quegli anni non mancarono sicuramente di affermarsi le idee ecologiste: alcune organizzazioni ancora oggi adottano il telelavoro – dicono – per ragioni ambientali, poiché il telelavoro oltre a ridurre il consumo di energia nei grandi centri urbani contribuisce a ridurre anche la congestione e l’inquinamento atmosferico, poiché ci sono molte meno automobili in giro (a proposito, leggi come ho spiegato il concetto di “smart mobility).

Il termine “telelavoro” fu coniato nel 1973 da Jack Nilles il quale lo promosse come “ogni forma di sostituzione degli spostamenti di lavoro con le tecnologie dell’informazione”, in particolare Nilles coniò il termine telecommuting (telependolarismo) da cui trae origine il termine telelavoro (telework). Da allora, sono state molte le definizioni date, la maggior parte delle quali formulate a partire dalle caratteristiche più peculiari di questa nuova modalità operativa: la delocalizzazione dell’attività lavorativa rispetto alla sede tradizionale di lavoro e l’utilizzo prevalente delle nuove tecnologie informatiche per facilitare la comunicazione tra il telelavoratore e l’ufficio remoto.

Negli anni ’90, il telelavoro è diventato oggetto di attenzione della cultura pop. Nel 1995 sono stati coniati diversi motti quali “Il lavoro è qualcosa che facciamo, non un luogo in cui andiamo”. Ed è stato adottato progressivamente da una serie di aziende, governi ed organizzazioni no profit, fino ad evolversi quasi integralmente, di fatto, nel remote working. In epoca più recente e prima della pandemia i “telelavoratori” spesso stavano in ufficio e lavoravano da un luogo di lavoro alternativo da uno a tre giorni la settimana.

 


“Ci sono molti modi per scoprire cos’è la solitudine, ma solo due prevedono che lo si faccia in compagnia di un’altra persona e costretti in pochi metri quadri: il matrimonio e il tennis. Entrambi godono, giustamente, di una vasta platea di appassionati”.
(Alessandro Baricco, da “Essere Roger Federer”. La Repubblica – Robinson, Luglio 2017)


 

Questa voce del Dizionario spiegato è stata scritta da Leonardo, l’intelligenza non artificiale di Italia2030.

 


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